La corsa per salvare i nuovi poveri
di Maria Sorbi,
L’Onu punta a eliminare gli indigenti nel 2030 e il Pil italiano cresce. Ma le persone sul lastrico sono un milione in più. E aumenteranno con lo sblocco di sfratti e licenziamenti
Fino a poco tempo fa nemmeno sapevano dov’era la mensa dei poveri della loro città, ora ci si trovano in fila tutti i giorni. Hanno il frigo ancora pieno solo grazie alle associazioni di volontariato che consegnano la spesa a domicilio. E hanno ancora una casa grazie al blocco sfratti ma non sono più in grado, da mesi, di pagare l’affitto e alla fine del 2021, quando scadrà la misura emergenziale, rischiano seriamente di trovarsi per strada. Con due valigie e l’intera famiglia da sfamare. In qualche modo.
Sono i nuovi poveri, quelli che durante la pandemia hanno totalmente sballato il loro (già molto precario) bilancio familiare. Chi si occupa di politiche per il lavoro e Welfare sa già cosa sta per accadere: è il crollo di una fetta del ceto medio-basso, una rivoluzione sociale che difficilmente invertirà la sua rotta. Il tutto in controtendenza rispetto agli obbiettivi Onu per lo sviluppo sostenibile. «Eliminare la povertà entro il 2030» è uno dei traguardi sottoscritti da 193 Paesi, Italia compresa. Già, ma al 2030 mancano meno di nove anni e i poveri sono in netto aumento. Tanto da rischiare di rendere carta morta l’ambiziosissimo piano voluto dalle Nazioni Unite e far diventare la battaglia contro la povertà ancora più dura.
Il post pandemia racconta di un’Italia divisa tra miseria e povertà: da un lato registra una crescita del Pil (+5%) da boom economico, con una media superiore rispetto a quella degli altri Paesi europei, dall’altro conta un milione di poveri in più rispetto al periodo pre Covid. Sono quelli che prima del 2020 arrivavano tirati tirati alla fine del mese e che ora non hanno più un lavoro. Crollati. Sono artigiani, lavoratori autonomi, titolari di piccole attività fallite, soprattutto nel settore dei servizi, della ristorazione e del turismo.
L’Istat calcola che nel 2020 siano 335mila in più le famiglie in povertà assoluta rispetto al 2019. Secondo le stime preliminari, sono oltre 2 milioni (il 7,7% del totale, da 6,4% del 2019) per un numero di individui pari a circa 5,6 milioni (un milione in più rispetto all’anno precedente).
L’incremento della povertà assoluta è maggiore al Nord e riguarda 218mila famiglie (7,6% da 5,8% del 2019). Il Sud resta tuttavia l’area dove la povertà assoluta è più elevata: coinvolge il 9,3% delle famiglie contro il 5,5% del Centro e colpisce ovviamente in modo più violento le famiglie con più figli, magari tutti minorenni.
Una fotografia agghiacciante che tuttavia sarà ancora più drammatica dopo lo sblocco dei licenziamenti, al momento congelato per decreto.
Se nei prossimi anni è previsto un aumento di chi non riuscirà più a sostenere i debiti e si arrangerà per dormitori pubblici e marciapiedi, diventa più che mai necessario contenere i danni e garantire una ripartenza di queste famiglie prima che «la strada li assorba» e li getti ai margini della società con quell’effetto centrifuga che rende difficilissimo un reinserimento.
LAVORI IN CORSO
«Stiamo lavorando al piano povertà. Dovrebbe essere approvato con Regioni e Comuni alla fine di luglio» garantisce Angelo Marano, direttore generale per la Lotta alla povertà e per la Programmazione sociale al ministero del Lavoro. L’idea è quella di andare oltre le misure emergenziali (e meramente assistenziali) per impostare un piano più strutturato, a lunga scadenza e creato su misura per la nuova categoria di poveri. A conferma che pandemia e lockdown hanno semplicemente accelerato una situazione che già traballava da tempo. E che ora è arrivata al punto di collasso.
«Negli anni la forbice sociale si è allargata e molte persone sono finite per strada – spiega Agnese Ciulla, membro della segreteria nazionale di Fio.psd, la Federazione degli organismi per le persone senza dimora – Tuttavia per aiutarle bisogna andare oltre la logica del dormitorio e del pasto caldo. Non basta attivare una misura sola ma è necessario avviare un percorso di accompagnamento per ogni persona in difficoltà, perché diventi autonoma e riesca a ripartire. Occorre una rete, una strategia nazionale. E gli enti devono fare da coordinatori perché non può essere solo il volontariato a occuparsi di queste problematiche. Se non si ragiona su un percorso e su vari fronti (educazione, salute lavoro e casa), allora anche il reddito di cittadinanza non è sufficiente per dare una nuova possibilità alle famiglie in difficoltà».
NUOVO REDDITO DI CITTADINANZA
Così com’è non funziona. Il reddito di cittadinanza ha certamente fatto da tampone a una crisi che avrebbe potuto essere ancora più esplosiva ma spesso è stato anche il motivo per cui molte persone hanno rifiutato lavori saltuari compromettendo occasioni di reinserimento sociale. Per di più è stato penalizzante nei confronti delle famiglie bisognose con più figli. Insomma, molti parametri per regolarlo sono da rivedere.
Anche perché il Governo ipotizza che i beneficiari del reddito di cittadinanza saranno tra i 500mila e i 700mila in più, con un aumento di domande del 20%. Per questo la bozza del decreto legge Sostegno prevede uno stanziamento di un miliardo di euro aggiuntivo solo per l’anno in corso. La platea «è cresciuta costantemente nei mesi dell’emergenza sanitaria – rileva il ministro del Lavoro Andrea Orlando – fino a coinvolgere un milione e mezzo di nuclei familiari».
Il ministero ha appena nominato il Comitato scientifico sul reddito di cittadinanza per far fronte all’impoverimento del ceto medio e aggiornare i parametri dell’assegno. Tra gli interventi possibili, il primo potrebbe essere quello di togliere il requisito dei 10 anni per gli immigrati ammettendo chiunque abbia un permesso di soggiorno di lungo periodo.
Si pensa poi a un modo per non penalizzare le famiglie con più figli e a qualche limitazione: l’idea è non rinnovare il sussidio oltre i 18 mesi alle persone «occupabili» ma integrarlo per chi lo percepisce e ha trovato un lavoro. In questo modo si correggerebbe il vizio di forma del reddito di cittadinanza che spesso incentiva un totale lassismo e implicitamente incoraggia a non cercare lavoro.
LE PROPOSTE
A contribuire a ridisegnare il reddito di cittadinanza e le misure di sostegno sono le associazioni dell’Alleanza contro la povertà. «Il reddito di cittadinanza va aggiornato – conferma il portavoce Roberto Rossini – se vuole essere realmente efficiente ed efficace. Il nostro è un contributo costruttivo e operativo».
Da qui un decalogo di proposte, frutto di una ricerca tra i beneficiari del sussidio che verrà conclusa in autunno. «Proponiamo di allentare il vincolo aggiuntivo sul patrimonio mobiliare. L’assegno unico universale non deve entrare nel reddito ai fini Isee necessario per la determinazione del reddito. Le due misure dovrebbero restare separate e l’importo del nuovo assegno dovrebbe aggiungersi al reddito di cittadinanza».
Ma oltre all’assegno, occorre «rafforzare il percorso di inclusione sociale e lavorativa con il potenziamento dei percorsi formativi e di aggiornamento delle competenze agendo sulla componente passiva per evitare la trappola della povertà». Di fatto, chi ha perso il lavoro oggi, difficilmente tra qualche anno eserciterà la stessa professione. Per questo serve formazione, per rendere più sensato il percorso di ritorno al lavoro.
PRIMA LA CASA
La nuova linea per aiutare i senza fissa dimora in aumento è non passare più solo dal dormitorio vecchio stampo o dalle graduatorie comunali. Ma mettere a disposizione un appartamento indipendente situato in varie zone della città. Il modello statunitense sembra funzionare anche in Italia e viene portato avanti dalla federazione Fio.psd in 25 città tra cui Torino, Milano, Trento, Udine, Pisa, Trieste, Padova. I destinatari del progetto sono, nel 40% dei casi, adulti con gravi disagi economici e abitativi, nel 14% dei casi, detenuti. Le case sono messe a disposizione anche di persone senza dimora croniche con problemi di abuso o dipendenza (sono il 20%) e persone senza dimora con disturbi mentali (il 10%). Il nuovo modello di abitare potrebbe essere un salvagente importante anche per affrontare la nuova ondata di poveri. Ovviamente l’assegnazione di una casa non deve più essere considerata un punto di arrivo. Ma una nuova partenza verso la ricerca di indipendenza e dignità: ogni inquilino viene seguito dai servizi sociali della città e, passo dopo passo, progetta il suo percorso, dal lavoro alla socialità. Molti studi nel corso degli ultimi vent’anni hanno dimostrato gli effetti positivi del modello di Housing first a diversi livelli. L’80% delle persone riesce a mantenere la casa a due anni dall’inserimento nel programma.