Milano, la città dei senzatetto dimenticati, alla mercé delle bande
Cresce il numero dei senzatetto e delle violenze. Abbandonati in strada, terrorizzati dai clan. E usati come prestanome
Per Giorgio questa è la decima estate che passa per strada. Dopo il rigido inverno che ha percosso Milano, è la volta di un’estate con temperature record. Un caldo soffocante che si è impossessato di ritmi, abitudini e necessità delle migliaia di senza dimora (secondo gli ultimi dati ufficiali il range va dalle 3 alle 7mila persone). Il capoluogo lombardo è infatti la città con più senzatetto in Italia, anche se, come spiega Simone Trabuio, uno dei responsabili del Progetto Arca – che dal 1994 offre aiuto a persone senza dimora e a famiglie povere – «le stime non sono aggiornate e non considerano gli ultimi avvenimenti globali e nazionali che hanno fatto aumentare a vista d’occhio le persone in stato di estrema povertà a Milano». Non serve infatti avventurarsi nei quartieri più difficili per capire che gli homeless sono in netto aumento. Si tratta di italiani e stranieri, molti giovani e qualche anziano: dormono ai piedi delle vetrine dei negozi di alta moda, barcollando in corso Buenos Aires tra un fiume di persone troppo impegnate per dedicargli un momento, invisibili agli angoli delle strade, icone di una città controversa e ambivalente.
L’Espresso ha vissuto con loro e come loro, ascoltando storie, frugando tra ricordi e traumi con indosso uno stigma che nessun essere umano merita. Perché «non si è senzatetto solo nei mesi d’inverno, per poi finire dimenticati tutto il resto dell’anno», puntualizza Giorgio.
Da inizio 2022 a metà luglio, secondo i dati della fio.Psd (Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora), sono 205 le morti su strada di senzatetto, quasi uno al giorno. Una situazione emergenziale. Lunedì scorso una donna è stata accoltellata in pieno giorno a Trastevere.
«Povertà e disoccupazione, mancanza di alloggi a prezzi accessibili, eventi drammatici che stravolgono la vita, sono le principali ragioni dietro alla condizione di molti senzatetto», spiega Trabuio. «Ad esempio, molte donne si ritrovano in queste condizioni, ai margini della società, per la separazione dal coniuge o per sfuggire a una relazione violenta. Mentre altri, che già da prima vivevano situazioni economiche difficili, hanno visto peggiorare le loro condizioni dall’inizio della pandemia e con la crisi economica in corso». Luigi, per esempio, è un veterano della strada. Ha cinquant’anni, si è trasferito dalla Campania a Milano da giovane e ha passato gli ultimi tre anni in carcere. Oggi si ritrova senza una casa, senza una famiglia, e con la difficoltà nel trovare un lavoro. «È complicato avere un impiego per un ex detenuto, quindi per vivere mi trovo lavoretti occasionali con imprese edili che non cercano operai da mettere in regola, oppure muovendo piccole quantità di stupefacenti». Luigi ha il volto scalfito dal freddo dell’inverno e svuotato dal caldo dell’estate, sul braccio un coltello tatuato e un buco nero al posto dell’incisivo. «La vita dei senzatetto non è sempre come nei film: nella realtà sono pochi quelli che chiedono l’elemosina e vivono sotto un cartone, il classico “barbone” con abiti puzzolenti e la bottiglia in mano. E per sopravvivere, a volte, ti devi abbassare anche a fare affari poco legali».
I soggetti deboli sono una pedina invisibile nelle mani della criminalità. E come ci spiega Francesco Tresca Carducci, coordinatore di “Avvocato di strada Milano”, da qualche anno è stato pensato un nuovo espediente criminale per sfruttarli: ovvero l’intestazione fittizia, o sostituzione di persona. «Ci sono persone che hanno bisogno di un cellulare e di una connessione Internet per commettere reati. E in cambio di un panino o di 50 euro convincono un senzatetto a intestarsi un’utenza. Con quello che poi ne consegue, dopo le intercettazioni. C’è perfino chi si è rivolto a noi perché, nonostante lo stato di povertà assoluta, risultava proprietario di immobili, società e auto di lusso», spiega Carducci. Tra la cinquantina di persone che ogni mese bussa allo sportello dell’“Avvocato di strada“, in piazza San Fedele, ci sono anche molti extracomunitari. «Arrivano molti cittadini ucraini, spesso donne, per chiedere il riconoscimento della protezione internazionale. Sono senza una dimora e ci implorano di non farle ritornare nel loro Paese. Stiamo facendo di tutto con Comune e servizi sociali affinché questo non avvenga», continua il legale. L’Ucraina, però, non è la sola nazione dalla quale i cittadini sono in fuga. Nadir, Omar e Rashad sono in un angolo del piazzale della stazione di Lambrate: hanno percorso, a piedi e con l’autostop, dieci Stati per arrivare a Milano dall’Afghanistan. Dormono dove capita, uno di loro ha le gambe insanguinate e tutti e tre hanno i piedi dilanianti dallo sforzo. «Siamo scappati dall’Afghanistan, abbiamo lasciato le nostre famiglie e non sappiamo cosa ci potrà capitare, ma tutto è meglio che vivere sotto il regime dei talebani», confessano all’unisono.
I tre ragazzi, come molti altri senzatetto intervistati, passano la notte sui treni, in strada, nelle sale d’attesa delle stazioni e del pronto soccorso, sulle panchine nei parchi. Durante l’inverno vanno a scaldarsi sugli autobus, nelle biblioteche, nei centri commerciali. E spesso l’unico sostegno, a parte il barista pietoso o il panettiere, sono i centri d’ascolto e le mense per i poveri.
Il Progetto Arca, durante il primo lockdown ha creato la Cucina mobile: a tutti gli effetti un food truck che dona ogni sera 100-130 pasti caldi , 720 totali a settimana. Oltre ai tre ragazzi afghani, ad attendere il sacchetto con i viveri, ci sono laureati ed ex imprenditori, persone che svolgevano lavori più o meno importanti e avevano una casa, degli affetti, persi a causa della crisi o chissà per quale altro motivo. «Il menu è ciclico e cambia ogni giorno: si compie il massimo sforzo per rispettare i regimi alimentari e i divieti religiosi. Sempre di più si rivolgono a noi giovani e persone con famiglia, perché si è instaurato un rapporto di mutua fiducia», aggiunge un volontario.
Al 2021, secondo l’Istat, sono in condizione di povertà assoluta poco più di 1,9 milioni di famiglie (7,5 per cento del totale da 7,7 per cento nel 2020) e circa 5,6 milioni di individui (9,4 per cento come l’anno precedente). Molti degli «invisibili» sono quindi anche coloro che si confondono con la popolazione socialmente integrata della quale probabilmente facevano parte fino a poco tempo fa. Quanto al dormire, il problema si è intensificato dopo la fine della sospensione degli sfratti nel Comune di Milano a inizio 2022. Molti homeless preferiscono dormire fuori e usufruire dei bagni comunali per ogni necessità, ma la maggior parte cerca asilo nei dormitori. Si tratta di rifugi sparsi in tutto il comune meneghino: sono circa una decina, offrono in totale più di 1.500 posti letto, e per accederci c’è bisogno di un’intermediazione dell’assistente sociale e quasi sempre di uno screening sanitario. Siamo entrati nella Casa della Solidarietà in via Saponaro, gestita dalla Fondazione fratelli di San Francesco: si tratta di un centro di accoglienza diurno e notturno che accoglie diverse fragilità presenti sul territorio milanese, quali persone senza dimora, persone malate, anziani soli, richiedenti asilo e minori stranieri non accompagnati.
Ad accoglierci, oltre al responsabile Bledjan Beshiraj, sono Washington e Sergio, due ex senzatetto entrati a far parte del personale della struttura. «Per stare qui si devono rispettare delle regole, e non tutti ci riescono», puntualizza Sergio. «Il cibo è buono, ci trattano con dignità e nessuno ti manca di rispetto. Nelle camerate sono presenti sei letti e gli ospiti vengono da tutto il mondo, quindi ci possono essere delle incomprensioni, ma è sempre meglio che dormire per strada». Gli ospiti in totale sono più di 250, la mensa fornisce circa mille pasti al giorno, e la Fondazione mette a loro disposizione psicologi, sociologi e uno sportello legale. All’interno dell’edificio molti giovani evitano il contatto visivo, sfuggono ai sorrisi e ai cenni di saluto: «Per parlare e aprirsi c’è il centro d’ascolto. È li che si incrociano le storie di tutti, il luogo dove le persone raccontano i loro drammi quotidiani, elencano le necessità impellenti, chiedono, si informano, sperano», chiosa Beshiraj.
Ma visto l’aumento del numero di senzatetto, serve forse un maggior utilizzo dell’approccio housing first? «Negli ultimi anni il Comune ha investito molto sulle strutture di piccole dimensioni che, molto più dei grandi centri, possono contribuire a superare il fisiologico muro di diffidenza che molti anni di vita in strada hanno creato. Abbiamo privilegiato l’approccio housing first e led con appartamenti singoli o dedicati a pochissime persone, riservati per lo più a coloro che definiamo “irriducibili della strada” e che mal sopporterebbero la vita in comunità», risponde Lamberto Bertolé, assessore al Welfare e Salute del Comune di Milano. Si tratta di una sperimentazione partita da oltre quattro anni e che lentamente sta avvolgendo il tessuto sociale più fragile della città. «Non vogliamo fermarci e, infatti, tra i progetti presentati per i finanziamenti Pnrr abbiamo inserito anche la realizzazione, all’interno di alcuni stabili comunali da ristrutturare di nuovi appartamenti dedicati all’housing first».
Nonostante ciò, tra procedure e dedali burocratici, quello che manca è anche «la programmazione e la co-progettazione tra enti e Comune di Milano», svela Alessandro Pezzoni, rappresentante di Caritas ambrosiana. «Non ci possiamo lamentare, perché la città è un esempio nel campo dell’assistenza ai senzatetto, ma ci sono alcuni aspetti che si possono migliorare: dobbiamo andare oltre le misure di emergenza, non possiamo ricordarci che esistono i senzatetto solo quando arriva l’inverno e dimenticarcene per il resto dell’anno». Come? «Bisogna aumentare la qualità degli interventi e avere un’attenzione continua. Prima di tutto, inserire nelle unità di strada psicologi ed educatori. È il solo modo per non fermarsi alla semplice distribuzione di beni di prima necessità. Poi bisogna sposare l’approccio che ha dato buoni risultati ovunque è stato applicato: vuol dire che ai senzatetto bisogna dare prima di tutto un alloggio di cui possano sentirsi responsabili e fare così leva sulle loro capacità di auto-recupero», conclude Pezzoni. Anche perché vivere per strada espone queste persone a rischi molto seri, sia d’inverno sia d’estate. Abbiamo provato a passare qualche notte nelle principali via di Milano, con un sacco a pelo e una valigia vuota. Dormire è difficile: forse perché avvisato da un altro homeless che, riconoscendomi come nuovo in quella via, mi ha consigliato di tenere gli occhi aperti. «Tieni stretta la valigia e abbassa lo sguardo quando passano le bande di ragazzini se vuoi rimanere tutto intero».
Le luci e il frastuono della città concedono poche ore di silenzio e di sonno; i passi che risuonano su sampietrini e porfido sembrano essere nenie minacciose; i commenti dei passanti sono lame al vetriolo. «Quello dei pestaggi è una deriva che preoccupa. In molti ci denunciano atti di violenza gratuita nei loro confronti», confessa il coordinatore di “Avvocato di strada”: «Un signore siciliano è stato picchiato da due ragazzi e noi siamo riusciti ad assisterlo nel processo per tentato omicidio e a fargli avere un discreto risarcimento. Non ha fatto in tempo a goderselo. È morto poco dopo per le conseguenze di quelle ferite».