Dalla Strada Direttamente A Una Casa: Housing First!
di Filippo Nardozza
Un modello alternativo di reinserimento nella società della persona senza dimora, che salta gli step intermedi dell’accoglienza in dormitori o in centri specializzati, per arrivare direttamente a una abitazione indipendente. Non sempre attuabile in modo “puro”, punta sulla rete, sul senso di responsabilità, sullo stimolo al miglioramento, fattori che accrescono l’autostima. Ne parliamo con fio.PSD, che ne ha promosso la sperimentazione in Italia attraverso il Network Housing First (556 persone accolte nel primo biennio, per lo più adulti singoli) e con Caritas Ambrosiana, una delle realtà lombarde attive anche su questo fronte.
Rovesciare il sistema tradizionale a passi graduali (staircase approach) di “riscatto” dell’individuo affetto da grave marginalità, invitando la persona senza dimora ad entrare da subito in un appartamento, guardando alla casa come punto di partenza (e non obiettivo finale) di un percorso di contrasto alla marginalità. Parola d’ordine il senso di responsabilità delle persona, seppur “assistita”.
E’ – Prima la Casa, modello che nasce negli USA degli anni ’60, si istituzionalizza negli anni ’90 ma prende piede nel nostro paese solo nel 2014, con l’arrivo del Network Housing First Italia, prima rete nazionale per la sua sperimentazione. A promuoverlo fio.PSD – Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora – nell’ambito di un più ampio impegno a livello internazionale nel contrastare il vivere senza dimora. All’inizio della sperimentazione, quattro anni fa, aderirono alla rete oltre 50 realtà che operano nel sociale: oggi, terminata la prima fase, sono 35 le progettualità attive, condotte da una rete di Enti pubblici e privati, realtà del terzo settore, diocesi con relative Caritas, in ben 10 regioni italiane del centro-Nord più Calabria e Sicilia, per 27 città coinvolte in totale
A Milano e in Lombardia sono 6 le realtà attualmente impegnate, anche dopo la prima fase sperimentale, in progetti di Housing First: Caritas Ambrosiana, Comunità Progetto, Opera Bonomelli (Bergamo), Opera San Francesco per i Poveri, Progetto Arca, La Rete (Brescia)
A breve – il 5 marzo – uscirà in libreria per Franco Angeli anche un volume sull’argomento – “Prima la casa. La sperimentazione Housing First in Italia”, a cura di Paolo Molinari e Anna Zenarolla – nel quale vengono riportati i risultati dettagliati dei progetti HF attuati dall’inizio della sperimentazione e valutati da diverse equipe di ricercatori e docenti universitari.
Ma su cosa si fonda Housing First e come funziona?
I motivi che possono portare una persona a vivere per strada o in sistemazioni abitative inadeguate sono molteplici e, spesso, non legati unicamente al fattore economico e alla mancanza di lavoro, ma dal concorrere di altri fattori: disagio socio-relazionale, fragilità familiari, dipendenza da alcol o sostanze stupefacenti, problemi di salute mentale o psico-fisica.
Housing first – Prima la Casa, si presenta come un programma cucito sulla persona, in cui essa – con la sue particolari esigenze e storia di vita – è al centro. Un modello che si basa sulla scelta dell’individuo, sulla casa come dritto fondamentale di ciascuno (a prescindere da ciò che fa e da come vive) e sulla contribuzione attiva alle spese, laddove possibile, nell’ottica del protagonismo della persona. Un modello in cui la rete che si crea attorno all’individuo senza dimora che va a vivere in una casa – il vicinato, il quartiere, la parrocchia, anche per l’accompagnamento nelle attività quotidiane, dalla spesa alle attività ricreative – è centrale.
“Il modello tradizionale di reintegrazione della persona senza dimora – che prevede innanzitutto l’accoglienza in dormitori o strutture specializzate – si fonda spesso su diversi ‘se’ e ‘ma’ – spiegano da fio.PSD. – La casa è un premio: se la persona supera una serie di prove, se accetta di curare i problemi di salute psichica o di dipendenza che ha, se riesce a trovare un lavoro, può avere accesso a una casa-famiglia o a una comunità terapeutica, magari a un’esperienza di co-housing, Il modello Housing First cerca invece, per alcuni soggetti, di superare queste prove e di arrivare direttamente alla casa, mediante un processo di accompagnamento cucito sulla persona.”
Posta quindi la disponibilità di un alloggio senza limiti di tempo pre-stabiliti (e la volontà, la scelta della persona di intraprendere il percorso) si stabilisce se la soluzione migliore può essere quella di abitare da soli e in modo indipendente (la soluzione ideale) o di optare per un’esperienza di co-housing, quindi di co-abitazione. Un’opzione, quest’ultima, che – oltre che per le famiglie (nel primo biennio di sperimentazione il 41% dei 186 appartamenti coinvolti in tutta Italia ha ospitato proprio nuclei familiari) – può funzionare ad esempio nel caso di coppie senza dimora stabile o di rapporti di amicizia particolarmente solidi. In linea generale, è importante che le abitazioni destinate a questi progetti siano sempre distribuite sul territorio, quindi i soggetti ospitati non siano “confinati” in una certa area della città.
Le abitazioni messe in campo per l’Housing First per la maggior parte vengono dal mercato privato (il 70% nel biennio di sperimentazione 2014-2016), mentre per il resto possono essere di diretta proprietà dell’ente promotore (è il caso ad esempio del patrimonio ecclesiastico) o provenire dall’edilizia pubblica.
Ma come viene individuata, tra le tante, la persona più idonea da avviare a un progetto di Housing First? E come viene poi accompagnata?
Il modello dà attenzione privilegiata alle persone senza dimora croniche, con problemi di salute mentale o dipendenza da droga e/o alcol, elementi (in particolare quello delle dipendenze) che non risultano di ostacolo all’ingresso in una casa mentre possono rendere difficoltosa la convivenza in un dormitorio. Anzi, vivendo con una certa stabilità in casa è più facile che ci si faccia aiutare.
In linea pratica, girando in strada con le unità mobili e avvicinando persone senza dimora, si cerca di “avviare a questo tipo di progetti chi, per altri motivi, non potrebbe avere accesso ad altri servizi e strutture – racconta Alessandro Pezzoni, Referente Area Grave Emarginazione di Caritas Ambrosiana, realtà che al momento ospita un uomo quarantenne in un progetto di Housing First in collaborazione con la cooperativa sociale Comunità Progetto e con Fondazione San Carlo. Allo scopo è adibito un appartamento di proprietà dell’ALER (l’Azienda Lombarda Edilizia Residenziale, che gestisce le case popolari a Milano). A seguirlo costantemente due educatori che lo accompagnano nel disbrigo di questioni legali e burocratiche (tra cui anche quelle per la richiesta di eventuali indennità e pensioni spettanti), al CPS (Centro Psico Sociale) e per le cure in ospedale. Ma non solo: “Viene condotto un lavoro educativo di addomesticamento al vivere in casa, di riappropriazione del senso della dimora, e non solo di utilizzo e di gestione degli spazi e delle attrezzature domestiche – prosegue Pezzoni di Caritas. – oltre che di costruzione di una rete di persone prossima all’individuo. E’ un percorso graduale, che risulta naturalmente più semplice laddove ci sono già state esperienze abitative di qualche tipo”.
Nei casi più strutturati il team che segue la persona in Housing First è costituito da un assistente sociale, da psicologi, da un mediatore culturale e anche da peer, ossia altre persone che hanno avuto un passato da homeless. Per le spese di affitto, di mantenimento della casa e personale, si chiede una compartecipazione economica fino 30% del proprio reddito, che può provenire da pensioni o dal REI (il Reddito di Inclusione, che dall’inizio di quest’anno sostituisce il SIA – Sostegno per l’inclusione attiva e l’ASDI – Assegno di disoccupazione).
In alcuni casi, i Comuni stessi contribuiscono alle spese, come quelle per l’accesso alle utenze. Ma anche laddove non ci fosse un reddito che possa consentire la partecipazione alle spese, la finalità educata e di stimolo è chiara: sta nella responsabilità della gestione di se stesso e della casa. Dove possibile si valutano anche opportunità di aggancio lavorativo e di inserimento in attività di tipo sociale.
I limiti e le sfide del modello e gli effetti positivi.
In Italia sono anzitutto la necessità di un cambiamento culturale e quella di investire maggiormente nella formazione, oltre all’incapacità dei Comuni di venire sufficientemente incontro alle spese di gestione, i fattori che possono limitare lo sviluppo dell’HF, rispetto ad esempio a paesi del Nord Europa.
A livello generale, però – spiega la fio.PSD sul suo sito – gli effetti positivi del modello HF a diversi livelli sono incoraggianti. L’80% delle persone riesce a mantenere la casa a due anni dall’inserimento del programma di Housing First (rispetto al biennio di sperimentazione italiana si registra anche un 8% uscito dal programma per raggiunta autonomia). Altri risultati positivi sono la riduzione dell’uso di droga o alcol; l’incidenza sul benessere psico-fisico della persona dovuta alla disponibilità di una casa propria (riducendo le spese mediche); il migliorato effetto “inclusione sociale” dovuto alle opportunità che la casa, come luogo di cura di sé, di identità e di appartenenza ad una comunità, offre alla persona. Sebbene l’inserimento occupazionale rimanga un nodo critico (e anche poco indagato dalla ricerche sull’HF), alcune ricerche hanno evidenziato come la persona possa auspicare ad un coinvolgimento nel mercato del lavoro grazie ad un processo di auto-stima ed empowerment che l’alloggio può offrire. Infine, si evidenzia una riduzione dei costi di gestione dell’HF per l’amministrazione pubblica e per il contribuente rispetto allo staircase (non sono necessarie strutture dedicate, ma sufficienti appartamenti idonei ad ospitare le persone che entrano nel programma, le quali compartecipano al pagamento dell’affitto). Inoltre, l’approccio HF riduce l’utilizzo di posti letto nei dormitori e l’ingresso in pronto soccorso (rappresentando un risparmio del 50% dei costi per l’amministrazione e la sanità pubblica).
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