Reddito di cittadinanza e persone senza dimora
Offriamo loro un’opportunità
Lo scorso 29 marzo è stato pubblicato in gazzetta ufficiale il Decreto-Legge convertito con modificazioni dalla L. 28 marzo 2019, n. 26 che introduce il Reddito di cittadinanza (RdC). All’articolo 1 viene subito sottolineato che il RdC è una misura fondamentale di politica attiva del lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale nonché diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro.
In linea di principio, dunque, l’uguaglianza sostanziale, i doveri di solidarietà e protezione sociale di cui lo Stato è garante, sono fatti salvi. Tuttavia, il rischio reale che una parte di povertà, quella definita come povertà estrema, rimanga fuori dalla misura c’è.
Si tratta delle Persone Senza Dimora (PSD), i poveri tra i più fragili e vulnerabili. Vivono una condizione di deprivazione materiale e immateriale caratterizzata da continui scivolamenti, difficoltà, impedimenti di diversa natura legati al loro stato di salute, al lavoro, ai legami familiari o relazionali, alla lontananza dal paese o città di origine, alle dipendenze, alla giustizia, alla possibilità oggettiva e capacità soggettiva di godere di opportunità economiche, culturali, sociali, politiche che li faccia emergere da una indigenza grave e perdurante.
Non è facile tracciare un profilo unico della persona senza dimora ma tutte le evidenze raccolte dai territori negli ultimi anni, siano esse di natura statistica (Indagini Istat del 2012 e 2015) o studi di settore (Osservatorio fio.PSD), ci dicono che siamo ben lontani dallo stereotipo del clochard che sceglie la vita in strada. Siamo di fronte piuttosto a storie di vite di lavoratori poveri, persone sfrattate, connazionali e migranti economici che lavorano nel settore dei servizi a bassa qualifica, come nell’agricoltura o nell’edilizia, persone che hanno subito traumi, perdite, frodi, che hanno forme di invalidità fisica o psichica e che, in assenza di una rete di sostegno familiare e di un sistema di tutele attrezzato a riconoscere i nuovi rischi sociali, iniziano un processo di scivolamento verso la povertà estrema dove disagio sociale e disagio abitativo si cumulano velocemente.
La homelessness italiana, nel senso di PSD presenti in Italia al di là della loro nazionalità di origine, è stimata in 50 mila persone (Istat 2015). Sono uomini e donne, età media 44 anni, con basso titolo di studio, che in Italia hanno perso lavoro e reddito e non riescono a sostenere i costi dell’abitare, persone multiproblematiche. Milano, Roma e Palermo sono le città dove sono più numerose.
Queste persone si rivolgono agli oltre 700 servizi di accoglienza dei comuni e delle organizzazioni del terzo settore per mangiare e dormire. Circa la metà vive di espedienti e collette. Solo il 10% riceve sussidi del comune e di altri enti pubblici. Un dato, quest’ultimo, che ci fa riflettere sul fatto che per queste persone l’accesso al welfare tradizionale è già molto difficile. Replicare meccanismi di accesso stringenti, non li farà svanire dalle nostre strade ma li alienerà ulteriormente aggravando la loro condizione. Le storie sociali, le biografie lavorative ed economiche di queste persone infatti, per chi ha la volontà di ascoltarle, sono assai complesse e incardinarle in un sistema di tutela dal disagio costruito su altre categorie non è sempre facile. Qualcuno riesce a percepire una disoccupazione, qualcuno è in attesa da anni di casa popolare, qualcuno aspetta il riconoscimento dell’invalidità, qualcuno è inserito in programmi di inserimento socio-lavorativo a sei mesi con rimborso spese. Se consideriamo infine che la vita in strada ti costringe a risolvere problemi di sopravvivenza che lasciano poco tempo alla progettualità e che la vita in strada produce isolamento e sfiducia con un rischio evidente di perdere i diritti sociali, civili, umani e politici garantiti dalla Costituzione, si può meglio comprendere la deriva a cui sono destinate molte persone.
Dunque, anche di fronte al Reddito di Cittadinanza, ci chiediamo: quanto conta aver perso il lavoro, la casa e vivere in strada da più di due anni per rientrare tra i poveri meritevoli? Quanto contano i requisiti formali ed economici che riesci a certificare, piuttosto che i segni evidenti del tempo trascorso in strada, la concreta assenza di mezzi e gli effetti preoccupanti che la povertà genera nelle persone e nelle nostre civilissime città?
Alla luce di queste osservazioni, organismi di rappresentanza nazionale come la fio.PSD (Federazione Italiana degli Organismi per le Persone Senza Dimora) e di tutela, come l’Associazione Avvocato di strada, hanno avanzato emendamenti e ipotesi di integrazione per evitare che l’accesso ad una misura sociale di questa portata sia subordinato a tipologie di soggiorno o a particolari tipologie di residenza con il manifesto rischio di escludere proprio coloro che necessitano di essere inclusi in un sistema di tutela, protezione e promozione sociale adeguato ai nuovi profili dei poveri.
Di seguito una breve descrizione dei principali nodi critici sui quali si è aperto un dibattito con i principali interlocutori del Reddito di Cittadinanza: residenza, accesso e welfare territoriale integrato.
Molte persone senza dimora non possiedono la residenza anagrafica o la perdono facilmente a causa degli eventi che li hanno portati a vivere in strada. Alcuni ottengono la residenza fittizia dopo una lunga attesa e, se non governato attentamente, questa meccanismo lascia adito a casi di cancellazione per irreperibilità. A fronte di queste difficoltà, si potrebbe dimostrare, con attestato di presa in carico rilasciato da ente pubblico, la presenza continuativa di due anni della persona senza dimora nella città in cui si fa richiesta di RdC. Al contempo si può offrire opportunità di eleggere il proprio domicilio nel comune in cui la persona si trova in caso di sfratto o di perdita della residenza durante il godimento del beneficio.
In materia di accesso come si diceva sopra, bisogna necessariamente investire in un rafforzamento della infrastruttura sociale dei territori che garantisca un accesso prioritario alle prestazioni del sistema integrato di interventi e servizi sociali proprio ai soggetti in condizioni di povertà estrema. In questo caso la presa in carico professionale sarebbe utile per superare alcuni vincoli normativi e a riconoscere alle persone senza dimora sia il beneficio economico che il sostegno ai costi dell’abitare; quest’ultimo pensato strategicamente come “dote abitativa” da destinare a futura locazione.
Molte delle persone senza dimora non sono occupabili nell’ordinario mercato del lavoro, ma necessitano di percorsi specifici di sostegno per l’inserimento sociale o, in sempre più casi, di percorsi di cura socio-sanitaria per condizioni di salute gravi. In questo caso avere una regia regionale, riconoscere e investire nel ruolo dei servizi sociali e sanitari dei comuni e degli ambiti territoriali per intercettare e accompagnare i potenziali beneficiari del RdC tra le persone senza dimora attraverso percorsi di welfare integrato che costruisca risposte differenziate e che faccia ponte tra i servizi al lavoro, alla casa, alla salute e all’inclusione sociale, è quanto mai necessario.
Concludendo possiamo dire che l’opportunità che le persone senza dimora probabilmente si attendono dal Reddito di Cittadinanza è prima di tutto quella di vedersi riconosciuti di nuovo come cittadini titolari di diritti e di doveri, siano essi nati o meno in Italia, ricevere una base minima sicura dalla quale ripartire e avviare un percorso di accompagnamento personalizzati volto anche solo semplicemente al benessere e alla dignità.
Anni di lavoro in progetti innovativi legati all’abitare, Housing First, dimostrano che se adeguatamente affiancati da equipe professionali anche le persone con anni di vita in strada, con evidenti difficoltà relazionali e problematiche importanti legate a dipendenze o salute, possono ritrovare uno stato di benessere e forme nuove di partecipazione alla vita attiva.
Oggi, a fronte delle cosiddette aree grigie della povertà così come della conclamata multi-dimensionalità, includere vuol dire prima di tutto comprendere, accettare e accogliere le differenze per ricondurle ad altrettanti multi-formi livelli di benessere e inclusione.
*pubblicato su Welforum il 6 maggio 2019